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Martedì 02 Dicembre 2003
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"Israeliani e Palestinesi una sfida per la pace mondiale"
"Il ruolo di Usa ed Europa"     sveve

di Alberto Stramaccioni

Il conflitto israelo-palestinese sembra destinato a non concludersi mai, o nella peggiore delle prospettive ad assumere i connotati dell'apartheid di tipo sudafricano. E' questa purtroppo l'impressione ricavata da un recente viaggio in Israele e nei territori palestinesi compiuto da una delegazione di parlamentari di venticinque paesi europei tra il 24 e il 28 ottobre scorso. Una missione voluta da “Med Brigde” un'organizzazione nata con l'obiettivo di rendere più produttivi i rapporti tra l'Europa e il Medio oriente proprio perché quest'area è sempre più decisiva per la pace mondiale. 


Un'area segnata da secoli di conflitti dove l'Unione Europea stenta ad avere una seria capacità di intervento. Le ragioni di questa situazione sono tante, ma non è un caso che proprio nei giorni scorsi siano stati i cittadini europei, interpellati attraverso un sondaggio, a considerare Israele al primo posto tra i paesi che 'rappresentano una minaccia per la pace nel mondo', in continuità con l'adagio della vecchia Europa che identificava gli ebrei come 'fautori di guerre'. Ma, se queste valutazioni vanno decisamente respinte, all'improvvido sondaggio ha fatto seguito la reazione scomposta dei governanti israeliani, che, con una certa risentita disinvoltura, hanno lanciato agli europei la consueta accusa di antisemitismo. 

1. E' necessario dunque che sia l'Europa che Israele facciano i conti in buona fede con i reciproci pregiudizi per superarli positivamente. In questo senso non si può certo non fare i conti con un'opinione abbastanza diffusa la quale ritiene che il conflitto arabo-israeliano è stato ed è fortemente condizionato dal ruolo che lo Stato di Israele svolge in tutta l'area, sostenuto economicamente e militarmente dagli Stati Uniti d'America. Ed è proprio questo ruolo politico-militare che si è andato rafforzando da alcuni anni, in particolare dopo l'uccisione del premier Yitzac Rabin nel novembre del 1995 (due anni prima strinse la mano ad Arafat sul prato della Casa Bianca) quando era pronto a firmare un accordo che nella sostanza accettava la nascita di uno Stato palestinese e dopo la provocatoria visita di Ariel Sharon nel settembre 2002, con mille poliziotti, sul monte del tempio di Gerusalemme, gesto che ha dato vita poi alla seconda Intifada. 

Naturalmente le azioni terroristiche in particolare quelle di Hamas hanno contribuito a delegittimare la volontà di pace dei palestinesi e la stessa leadership del vecchio, ma ancora popolare, Yasser Arafat, ma non per questo credo possa essere condivisa l'attuale politica dello Stato di Israele di rinchiudersi, se veramente vuole la pace, in una specie di politica della repressione fine a se stessa senza alcuna prospettiva di superamento del conflitto e di riconoscimento dell'esistenza di un altro popolo. D'altronde lo stesso Simon Peres in aperta polemica con l'attuale primo ministro Ariel Sharon ci ha detto che “la repressione chiama solo nuova repressione e se dovessimo fare la tragica e dolorosa conta dei morti tra israeliani e palestinesi sono sicuramente questi ultimi a pagare il tributo maggiore”. Non può essere quindi sostenibile una lettura della tragica vicenda del medio oriente secondo l'unico schema interpretativo di una lotta tra aggrediti e aggressori. Israele è certamente un paese aggredito da un terrorismo barbaro e fanatico che nulla al mondo può giustificare. Ma è anche l'aggressore del popolo palestinese, di cui occupa la terra e reprime la rivolta uccidendo con la forza delle armi centinaia di civili inermi (per la precisione sono quasi tremila negli ultimi anni). La tragedia della Terra Santa sta proprio in questo destino incrociato di due popoli, di due paesi, di due classi dirigenti che possono essere aiutati a trovare la via della pace solo se si riconosce loro una comune responsabilità nella spirale terribile della guerra e dell'odio. Se si muove invece dal pregiudizio secondo cui c'è un aggredito e un aggressore che deve ritirarsi non si farà mai un solo passo verso la pace. Questa è la realtà. 

2. Certo ci sono stati numerosi tentativi di pace, ma nessuno è andato in porto non solo per le responsabilità di una sola parte. Solo dopo l'inizio della prima Intifada nel 1987 (senza riandare alle origini di un conflitto secolare culminato nel secondo dopoguerra con gli scontri armati del 1948, 1956, 1957, 1973) si sono consumate diverse possibilità di accordo da quello di Camp David nel 1979 a quello di Oslo del 1993 fino a quello sempre a Camp David del luglio del 2000. Ma a tutt'oggi, di fronte alla proposta della Roadmap (fondata sul parallelismo degli obblighi e degli impegni delle due parti elaborata dall'Onu, Russia, Europa, Usa), un milione e mezzo di palestinesi, (dentro lo stato di Israele, che conta quasi cinque milioni di abitanti), sono rinchiusi nei loro territori (quasi mezzo milione di rifugiati in medio oriente), ghettizzati ancora di più dalla incessante opera di costruzione dei muri di cemento armato. Muri intorno alla Cisgiordania, vere e proprie fortificazioni di tipo medievale previste per oltre seicento chilometri, non solo intorno alla West Bank ma dentro i diversi territori, mentre i coloni (quasi 250 mila) difesi dai militari israeliani gli sottraggono giorno dopo giorno terra, acqua, ricchezza e libertà. La storia dovrebbe insegnare che i muri non portano la pace e la loro ideologia è sempre antidemocratica. Nato nelle intenzioni di qualcuno come elemento di difesa, oggi il muro è il più straordinario strumento di offesa e di umiliazione. 

Il gruppo dirigente palestinese è certo in crisi politica e di leadership, ma gli israeliani gli proibiscono addirittura di riunire il loro parlamento eletto democraticamente nel 1996, impedendo ai membri stessi di recarsi nella loro sede. Senza dire che gli israeliani non riconoscono lo status giuridico e politico-istituzionale dei territori occupati e la stessa classe dirigente palestinese al punto che, se la nostra delegazione parlamentare voleva discutere con Sharon non poteva certo incontrare Arafat e nemmeno Abu Ala. Specularmente lo stesso parlamento israeliano, la Knesset, a Gerusalemme, sede di quella che con orgogliosa enfasi Sharon definisce 'l'unica democrazia mediorientale' è una specie di bunker difeso dal filo spinato e presidiato da carri armati e militari. Le stesse vie di Gerusalemme ovest (l'est palestinese è diversa) sono per lo più deserte in una città apparentemente ordinata e ricca, dove suscita una certa inquietudine il fatto che non sembrano esserci industrie o attività produttive rilevanti e in presenza di una ridotta e superassistita agricoltura. 

3. Naturalmente gli ostacoli per la pace sono molteplici e si intrecciano tra loro in ambito locale e internazionale, sul piano politico, culturale, etnico e religioso accumulatisi nei secoli e negli ultimi decenni. Il fondamentalismo islamico ha prodotto e produce innanzitutto danni notevoli per la comunità islamica e per la stessa comunità internazionale proprio perché alimenta e copre un'azione terroristica, in uno scontro tra occidente ed oriente con 'un occidente da convertire', compiendo stragi devastanti come quella dell'11 settembre 2001 a New York e Washington o alimentando il terrorismo in Afghanistan ed oggi in Iraq, pur dopo una guerra ingiusta. Ingiusta perché figlia di quella concezione degli 'stati canaglia' che è all'origine del manicheismo americano e della stesa dottrina della guerra preventiva di Bush, ma comunque di liberazione da un regime dittatoriale. 

Ma proprio di fronte a tutto ciò che sarebbe necessario creare, nel Medio Oriente, condizioni politiche e religiose meno antagoniste verso la cui prospettiva non aiuta di certo la pervicace riproposizione dell'idea dello Stato di Israele, come uno stato giudaico, da accrescere nella sua popolazione, secondo l'obiettivo di Sharon, di almeno un milione di ebrei nei prossimi dieci anni. D'altronde a proposito di conflitti religiosi o interetnici, Re Abdullah di Giordania, nel corso di un incontro, ci ha riportato una suggestiva testimonianza del padre, Re Hussein, raccolta mentre erano insieme in volo sui cieli dell'area mediorientale. Guardando dall'alto nel raggio di nemmeno cento chilometri i territori confinanti del Libano, della Giordania, di Israele, dell'Egitto e della Siria, dove da secoli vivono cristiani, musulmani, ebrei, ortodossi, sottolineò con passione l'esigenza che in un territorio così ristretto non poteva che esserci una pacifica convivenza e coesistenza tra le diverse religioni. Coesistenza e convivenza che sembrano esserci in alcuni luoghi simbolo della cristianità come il Santo Sepolcro a Gerusalemme, o nell'area della Natività a Betlemme, o negli stessi territori occupati dai palestinesi dove c'è un forte multiculturalismo e pluralismo religioso. 

4. Problemi religiosi, politici, etnici, economici e sociali si intrecciano da secoli nell'intera area mediorientale, ma negli ultimi tempi producono solo morti, dolore, ingiustizia senza alcuna prospettiva di pace. Forse intere e vecchie generazioni di israeliani e palestinesi si sono logorate in una lotta decennale senza esclusione di colpi, ed oggi non sono più in grado di prospettare alcuna via di uscita. Ma, credo d'altronde, che sarebbe un errore grave pensare ad una soluzione pacifica del conflitto facendo affidamento solo sull'iniziativa interna e non invece sul ruolo della comunità internazionale dell'Onu degli Stati Uniti d'America e dell'Europa. L'ultima risoluzione dell'Onu condanna la costruzione del muro, ma gli Usa non mostrano uguale determinazione. La vicenda del muro d'altronde non è cosa di poco conto. L'idea nacque addirittura nel 1967 per dividere la West Bank da Israele, ripresa dal premier laburista Ehud Barak nel 2000 come 'barriera i sicurezza' è stata rilanciata da Sharon con ben altri obiettivi. Il muro di Sharon si addentra invece in modo tortuoso ed in profondità nel territorio della West Bank, proprio con lo scopo dichiarato di proteggere i numerosi villaggi realizzati da coloni israeliani rispetto ad eventuali attacchi provenienti dai villaggi circostanti tuttora abitati da popolazione palestinese. Una prima conseguenza del progetto di Ariel Sharon sarà l'isolamento o comunque la creazione di gravi difficoltà di spostamento per gli oltre trecentomila palestinesi che attualmente risiedono nelle zone interessate al muro, senza considerare i gravi danni alla già precaria economia palestinese ed i problemi di approvvigionamento idrico aggravati dalla frantumazione del territorio. Ma sul piano politico, tale progetto comporta una seconda conseguenza: esso infatti determina una ulteriore grave discontinuità fisica nel territorio del futuro Stato palestinese oltre alla discontinuità già esistente tra la West Bank e la striscia di Gaza. Ma nei progetti dell'attuale governo Sharon, oltre al muro nella West Bank, è previsto un altro muro, con un tracciato complessivo di 50 chilometri e della altezza di 4,5 metri, che dovrebbe separare integralmente la stessa West Bank da Gerusalemme Est, (città prevalentemente abitata da palestinesi, e dalla Autorità nazionale palestinese) designata a diventare la capitale del nuovo Stato indipendente. La seconda fase di realizzazione del muro dovrebbe prevedere la sua estensione per altri 350 chilometri nel territorio della West Bank a protezione degli insediamenti delle colonie israeliane, dimenticando quasi completamente il tracciato della 'green line' sulla quale avrebbe dovuto invece attestarsi il confine di Israele. La stessa amministrazione americana sembra comprendere che il muro finirà per avere più conseguenze negative che positive, ma la condanna esplicita di Bush non è finora arrivata e il presidente americano si è, in sostanza, limitato ad osservare che 'il muro è un problema'. 

5. E' l'Europa quindi, anche se divisa tra le posizioni non proprio convergenti di Francia e Germania da una parte e dalla Gran Bretagna dall'altra, che potrebbe dare un forte contributo ad un vero processo di pace a condizione però che oltre ad una politica equilibrata ed unitaria per il medio oriente basata sul reciproco riconoscimento dello Stato israeliano e di quello palestinese, si doti anche di un'autonoma forza militare di pace in grado di rappresentare con maggiore efficacia la volontà di riconciliazione nella sicurezza e nella democrazia. Non a caso sarebbe auspicabile l'intervento di una forza di interposizione multinazionale alla quale anche l'Italia dovrebbe dare il suo contributo. Purtroppo l'Italia con il governo Berlusconi, schierandosi acriticamente a fianco di Sharon e della sua politica, ha ridotto di molto la possibilità per il nostro paese di svolgere un ruolo positivo nella ricerca della pace. Il Medio Oriente avrebbe bisogno di un'Europa capace di essere egualmente vicina al popolo israeliano e al popolo palestinese, ed egualmente capace di spingere con fermezza i leaders di entrambe le parti a muovere sulla strada del dialogo e dell'ascolto reciproco. 

All'ascolto reciproco dovrebbe orientarsi anche la politica degli Stati Uniti d'America che nell'area medio orientale viene invece identificata sempre di più come espressione di una politica non certo equidistante tra le aspettative e gli interessi degli israeliani e dei palestinesi e tra il mondo arabo e lo Stato di Israele. Europa e Usa insieme potrebbero quindi sostenersi reciprocamente in un'autentica politica di pace, se realmente lo volessero a partire per esempio dal sostegno all''Accordo di Ginevra'. Questa è d'altronde la sfida aperta per l'Europa e gli Usa nell'intero pianeta e quindi in particolare in Medio Oriente proprio perché ci troviamo in un mondo sempre più globalizzato anche dai conflitti militari, religiosi ed interetnici. Quella nel Medio Oriente è quindi una sfida per la pace mondiale.

 

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